Guida all'ascolto del brano

"5 Variazioni sopra 2 elementi tematici"

di Roberto Rampini

 

    Commento e analisi dell'omonimo e originale brano musicale per pianoforte solista composto da Roberto Rampini, frutto dell’elaborazione di alcune sue improvvisazioni giovanili (di stampo decisamente “anti-accademico”) con interessanti e inediti riferimenti autobiografici. La Composizione  ha ricevuto, fra l'altro, una Segnalazione per Merito Artistico dalla Giuria del 5° Concorso internazionale di Composizione pianistica 2002 (organizzato dalla Associazione culturale ‘De Musica” di Savona). Copia del Fascicolo in questione è stata anche depositata nel 1998 presso la 'Fondazione Archivio Diaristico Nazionale' di Pieve S. Stefano (Arezzo), e lì conservato per la memoria degli italiani.

    Potrai scaricare ed ascoltare il brano (in formato .mp3) nella pagina dedicata al CD 'Frammenti' (n.1), assieme ad altre composizioni dell'Autore. La partitura del brano (n. 1) è invece scaricabile nell'analoga pagina, che raccoglie le Composizioni strumentali di Roberto Rampini.


Alcuni estratti del Fascicolo

Roberto Rampini (Pilastro, 1996)

   Chi non mi conosce bene potrebbe forse trovare un tantino risibile e presuntuoso il presente scritto: una sorta di “Guida all’ascolto” di una mia composizione per pianoforte, la cui lettura richiede assai più tempo dell’audizione stessa!

    Il brano in questione (che obiettivamente ritengo non meriti di cadere nell’oblìo) è infatti composto da ben cinque variazioni (collocate tra una esposizione e un riepilogo), la cui durata complessisiva è però inferiore ai sei minuti!

    Lo avrete capito, spero: il pezzo è in realtà un (non disprezzabile) pretesto per parlare più in generale della mia esperienza artistica (e umana), con il giusto tono “professorale” che uno scritto del genere richiede, ma senza escludere un pizzico di sana auto-ironia (che non guasta mai).

    Dunque, nel lontano ‘74 avevo appena diciassette anni. Mi trovavo circa a metà strada degli studi di Geometra (scelta risalente ai tempi delle Medie, compiuta più per esclusione di altre possibilità che per autentica convinzione: non per niente anche mio cugino era geometra!), e già da un paio d’anni (dicembre‘72), al prezzo impegnativo (per la mia famiglia) ma non certo esoso di duemilacinquecento lire l’ora, avevo iniziato a prendere lezioni private di pianoforte dal compianto M° Lino Rastelli (squisita ed amabile persona nonché eccezionale pianista accompagnatore) il quale, già dalle prime battute, ripose nel suo nuovo allievo molte speranze: vissi l’evento come una prima “consacrazione” musicale, nonché come un passaggio dallo “status” dilettantesco a quello professionistico.

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Il pianista M° Lino Rastelli
(9/5/1901-19/8/1985)

    La mia pratica musicale diventò dunque un fatto più serio, privato e composto, trasferendosi due piani sotto, là dove avevamo collocato il pianoforte. E col passare dei mesi (e degli anni) i tasti bianchi e neri lentamente si trasformarono da oggetto di svago a vero e proprio strumento di lavoro.

    La “finestra” di tempo che nell’arco della giornata potevo sfruttare per lo studio della musica era costituita soltanto dalle ore pomeridiane: dalle tre alle sette (non prima, perché mio zio al piano di sopra riposava). La mattina infatti “andavo a geometra” mentre dopo cena sbrigavo i compiti; non era poi infrequente che di notte facessi le ore piccole per terminare qualche impegnativo disegno tecnico. Terminato dunque il pranzo, dopo un veloce riposino (allora mi bastava anche una ventina di minuti!) iniziavo a suonare, con l’immancabile sottofondo dei rumori che provenivano, soprattutto verso sera, dal negozio e dalla tintoria: mia madre che stirava, il babbo che centrifugava, la porta del laboratorio che, spalancata frequentemente e con decisione, produceva ogni volta un inconfondibile rumore.

    Solo la domenica pomeriggio (certo, studiavo anche di domenica) l’atmosfera che accompagnava le mie sonate e le mie fughe (musicali) era abbastanza insolita, a causa del silenzio fattosi decisamente più intenso!

    Nel soggiorno, perennemente illuminato dalla luce di una qualche lampadina (giacché la finestra della stanza si affacciava su uno di quei tipici e semibui cortiletti che separano, in tante case vecchie del “centro”, la zona giorno dalla zona notte), rimanevo in compagnia del mio pianoforte e dei miei spartiti; l’orologio a cucù del nonno era come se non esistesse più, quantunque ticchettasse a mo’ di metronomo con un rilevante numero di decibel: forza dell’abitudine!

    Le mie dita abbassavano i tasti un po’ ingialliti del solito pianoforte verticale rigorosamente nero, tedesco, massiccio, ottocentesco (vedi foto), già discretamente tarlato, passato sotto le speranzose mani di chissà quanti altri studenti: provvidenziale regalo (£. 80.000 + £. 20.000 aggiuntive di riparazione e accordatura) di una zia che lo conservava gelosamente in uno scantinato, sottratto con dispiacere alle attenzioni di una bimba handicappata che si vedeva privata di un ormai familiare oggetto-giocattolo.

Roberto Rampini al pianoforte di casa (Parma, 1973)

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    Ricordo ancora con quale gusto ogni tanto mi sfogavo suonando quella che ora è conosciuta come quarta variazione, soprattutto nei punti in cui la mano sinistra, ad ottave, esegue con grande intensità il primo elemento tematico (non a caso i bicchieri della vicina cristalliera si spostavano periodicamente di qualche centimetro!).

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    Nel luglio del ‘76 uscii finalmente dall’Istituto Tecnico con in tasca il sudato Diploma di Geometra, destinazione: Conservatorio!

    Fu un evento memorabile, che vissi come una vera e propria liberazione: ero già talmente orientato verso la mèta sospirata che persino le strade dei quartieri, nei miei progetti tecnici, erano tutte dedicate a musicisti!

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    Da quel momento in poi mi buttai a capofitto sull’organo, assegnando al pianoforte il ruolo di modesto comprimario (confesso che fin dall’inizio avevo impostato con quest’ultimo un rapporto un po’ opportunista).

    Il pianoforte (che allora non amavo particolarmente a causa della sua natura sonora, ma soprattutto del tipo di repertorio ad esso solitamente collegato) aveva assolto l’importante e insostituibile funzione di staccarmi da terra come il primo stadio di un missile (che desideravo a questo punto ormai sganciare, ritenendone esaurita la spinta propulsiva).

    E’ vero, continuavo (seppure con minor applicazione di prima) a prendere lezioni dal vecchio maestro, e il pianoforte rimaneva per me lo strumento indispensabile per l’acquisizione e il consolidamento di un’adeguata tecnica di base, soprattutto in vista degli esami di Compimento inferiore e medio. Ma il mio desiderio di fondo era quello di dedicarmi, una buona volta, alle due cose che mi interessavano in modo pressoché esclusivo (e che erano state la “molla” di tutta la mia vicenda artistica): Bach e l’organo (fu infatti la celeberrima “Toccata e fuga in re minore”, ascoltata per la prima volta alle Medie, a spingermi verso l’esplorazione di quello che si sarebbe rivelato per me come un nuovo, esaltante e promettente mondo: quello della Musica).

    Benché le prime “overdosi” di LP bachiani mi procurassero un iniziale (e comprensibile) “stordimento” non mancavo mai, a dispetto del sagrestano di S. Quintino, di dedicare una mezz’oretta quotidiana anche all’harmonium della mia parrocchia (cercando di decifrare e mettere assieme tutti quei segni a volte incomprensibili che leggevo sullo spartito della Toccata e fuga e che allora, per forza di cose, mi sforzavo di interpretare con tanta buona volontà, ma anche in modo mooolto approssimativo).

    Altra importante “tappa obbligata” della mia iniziazione musicale: la Messa domenicale celebrata nella chiesa di S. Pietro d’Alcantara, luogo che mi avrebbe rivisto diverso tempo dopo nelle vesti di “organista titolare” (come si suol dire, a torto, anche in Italia) per quasi un decennio.

Roberto Rampini durante il suo primo Saggio scolastico di fine anno
(Conservatorio "A. Boito", Parma - Sala Merulo - Maggio 1977)

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    Nel ‘79 decisi di “sigillare” in qualche modo la forzata convivenza musicale fra me e il pianoforte “condensando” in soli cinque minuti di musica cinque anni di improvvisazioni (antico retaggio delle strimpellate sul Davoli K249) alle quali ogni tanto mi concedevo, fra uno studio dello Czerny e una sonata di Mozart.

    A “tavolino” mi accorsi che il materiale da me prodotto e raccolto (e solo in parte elaborato) era basato su idee fra loro curiosamente imparentate, riconducibili a due linee melodiche fondamentali: una successione di note ascendenti ed una, viceversa, discendente.Da questa constatazione alla decisione di riunire il tutto come una serie di variazioni il passo fu breve.

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    Dopo questa frenetica e febbricitante attività “immortalatoria”, che allora vissi come un irrinunciabile “atto dovuto” (verso i posteri o più semplicemente verso me stesso?), sembrava che il destino volesse riservare al brano (finito nel classico cassetto) un futuro alquanto “oscuro” (sconosciuto da tutti e dimenticato persino dal proprio Autore)! Forse ero rimasto inconsciamente molto impressionato dalla settima, tassativa indicazione riportata nelle note esplicative del manoscritto, là dove addirittura pregavo l’esecutore di “non cambiare, aggiungere o togliere una sola virgola alla partitura”. Bella fiducia nei colleghi!     

    Ma il sottoscritto non aveva certo fatto i conti con la libertà che lo stesso Autore, magari con qualche anno in più (e qualche capello in meno) avrebbe sempre potuto prendersi nei riguardi della propria opera, senza per questo essere tacciato da alcuno (neppure da sè stesso) di arbitrarietà; ad esempio decidendo, in base ad una maggiore maturità e consapevolezza artistica, di apportare allo spartito quelle modifiche che, non alterando la spontaneità dell’ispirazione originale, avrebbero potuto conferire al brano un significato più pieno e convincente.

    Riprendendo in mano il manoscritto nel ‘95 mi resi infatti conto che la partitura, a distanza di più di quindici anni, aveva proprio bisogno di una bella “rinfrescata” a livello estetico (decisi perciò di realizzare una versione “a stampa” sperimentando, con ottimi risultati, un software professionale di notazione musicale appena acquistato), ma non solo: uno studio da me compiuto tramite sequencer aveva rivelato alcune lievi imprecisioni di trascrizione rispetto all’interpretazione originaria (senza poi contare certe soluzioni di scrittura un po’ troppo personali adottate nella stesura manoscritta, le quali potevano essere “tradotte” in modo più comprensibile e universale).

Copertina originale della prima versione 'manoscritta' del brano

    Sono convinto che più di un lettore stia da tempo “fremendo” per voler giungere una buona volta al “nocciolo del discorso”, dopo essersi sorbito questo interminabile preludio; vi accontenterò subito (ve lo meritate!), non prima però di aver riportato parte della prefazione (che potete leggere nella versione definitiva dello spartito):

    “Il lungo arco di tempo cui si riferisce la stesura di questo brano (dal 1974 al 1979) corrisponde in parte agli impegnativi anni di studio privato che mi introdussero adeguatamente alla successiva esperienza di Conservatorio; anche se avrei potuto facilmente cedere alla tentazione di rendere il brano “scolasticamente più corretto” ho però scelto, dopo meditata riflessione, di mantenere lo spartito nella sua concezione originaria, affinché resti come testimonianza autentica di un irripetibile periodo della mia vicenda artistica, contrassegnato da uno stile eterogeneo (ed anche un po’ naïf) ma non certo privo di originalità, tensione emotiva e slancio musicale, dalla prima all’ultima nota”.

    Il brano (pur con tutti i suoi pregi e difetti) è dunque quel tipico “pezzo unico” che un musicista può scrivere una sola volta nella vita (preferibilmente in età giovanile); gli studiosi non avrebbero difficoltà nel catalogarlo come un particolare esempio di musica “a programma”, costituito da brevi episodi su due elementi principali (ed altri accessori). Di questi ultimi il più “rilevante” è un frammento di dodici note che senza dubbio si ispira al primo Arabesque di Claude Debussy, sorta di “prestito musicale” esplicitamente riconosciuto dall’Autore all’Autore (le citazioni esistono da tempo immemorabile in letteratura, perché non utilizzarle più spesso anche in campo musicale?).

    Già dalla lettura del titolo, sia l’ascoltatore che l’esecutore si imbattono nella prima “stranezza”: “5 variazioni sopra 2 elementi tematici”. L’elemento tematico è, nell’intenzioni dell’Autore, materiale musicale allo stato puro, privo di una sua articolazione e struttura ritmica definita, il che offre molte più chances del solito, classico “tema” già vestito e pettinato. Prima di inoltrarci nei “meandri” del brano vorrei dunque presentarvi personalmente i veri protagonisti di queste cinque variazioni, i quali sembrano andare molto d’accordo proprio a motivo della loro reciproca diversità.

    Il primo può essere considerato a tutti gli effetti come l’elemento nobile e raffinato del brano: è completamente ascendente, di sei note (fra loro tutte diverse). E’ ampio (copre l’intervallo di una decima minore) e, fatto curioso (ma non troppo), si può geometricamente “ruotare” di 180° senza alterarne struttura e fisionomia. La presenza di due intervalli di quarta rende inoltre possibili interessanti applicazioni di tipo armonico, come vedremo in seguito. 

    Il secondo elemento tematico è viceversa completamente discendente, di cinque note (pure tutte diverse). Di conseguenza è più ristretto del primo (procede per comunissimi gradi congiunti, coprendo quindi l’intervallo di una misera quinta), per dirla in breve: sono le prime cinque note della scala di do diesis minore. E’ un elemento oggettivamente povero (e quasi insignificante), ma da non sottovalutare troppo (quanti capolavori sono stati finora scritti partendo da materiali apparentemente “banali”!...).

    Vorrei che notaste inoltre l’eterogeneità del brano non solo nei diversi atteggiamenti stilistici, ma anche nella scelta dei titoli: due delle variazioni utilizzano versetti della Sacra Scrittura (il primo titolo è tratto dall’Antico Testamento, libro della Genesi - o del Genesi, come dicono gli eruditi; il terzo dal Nuovo, più precisamente dal Vangelo secondo Matteo); per finire la seconda e la quinta variazione si rifanno a delle forme musicali (fuga e samba), mentre alla quarta ho affibbiato un titolo romanticheggiante di fantasia (non meravigliatevi troppo di questo insolito miscuglio sacro-profano, per niente casuale: inconsciamente rispecchiava la mia situazione spirituale di allora, per così dire ancora a mezza strada).

    Durante l’iniziale, enigmatica esposizione il primo e il secondo elemento tematico sono sbattuti sul tavolo dell’ascoltatore senza alcun riguardo, ancora secchi come dei baccalà (con successivo contorno della citazione debussyana che, per differenziarsi, dev’essere debitamente suonata piano, legata e veloce). Dopo di che è subito pronta a entrare in scena la prima variazione.     

    “...La terra dalle acque...” (Gen 1,9-10) propone subito un dualismo simbolico suggerito dallo stesso titolo: la terra (primo elemento, che si sviluppa dal basso) e le acque (secondo elemento, proveniente dall’alto): una brevissima esplosione di energia (solo 22 secondi!) dalla quale emerge una netta separazione fra due elementi, intesi non solo in senso musicale ma anche materiale: notate l’incrocio che avviene a battuta 6 (con conseguente scambio delle parti): ciascun elemento, obbedendo ad una superiore volontà, sembra finalmente trovare in questo mondo la sua precisa collocazione...

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    Un’ultima parola riguardo la prima variazione la spendo volentieri per farvi osservare (anzi, ascoltare) l’inconsueto ma efficacissimo accordo sospeso finale (niente paura: il do diesis che, secondo i crismi della Tradizione, suggellerà il brano confermandone la tonalità lo ritroverete certamente, ma alla fine di tutto); ogni singola variazione si guarderà infatti bene dal terminare con la tonica...

    Seconda variazione: “Pseudo-fuga ad una voce”. Titolo curioso (e intrigante), no? Già il termine “pseudo” sta a suggerire un qualcosa che sembra, ma non lo è. Qualcuno potrebbe “tirare in ballo” lo stile fugato ma... spiacente, ragazzi, ancora non ci siamo!

    Notate a questo punto l’evidente imbarazzo del musicista canonico nel leggere il resto del titolo: “ad una voce”... Certo, sappiamo bene che la fuga, basata sull’imitazione contrappuntistica, si sviluppa secondo determinate regole: un soggetto, la risposta della seconda voce nel tono della dominante, il controsoggetto ecc...

    Ma cosa succede nel caso si scenda al di sotto del minimo accademicamente consentito per una fuga, vale a dire (almeno) due voci? Semplice: l’unica voce in campo imita sè stessa, come quel famoso (?) cane che rincorre la propria coda (a proposito, avete mai pedalato su una “bicicletta ad una ruota”? In caso affermativo, sappiate comunque che la vostra non era una bi-cicletta, ma qualcosa che le assomigliava: semmai una pseudo-bicicletta).

    Se ammettiamo una simile, provocatoria contraddizione dobbiamo allora giustificare la presenza di un’effettiva (e a questo punto teoricamente scomoda) “seconda voce” al basso. Esaminandola bene scopriamo però che essa assolve la funzione di pseudo-indipendente “motore” musicale, cercando d’ipirarsi all’implacabile pulsare ritmico tipico delle opere bachiane.

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    Interessante poi notare ciò che succede alle battute 11-13: dopo aver voltato l’angolo (e pagina), la variazione cerca di ritrovare le ragioni della propria esistenza compiendo una piccola divagazione pseudo-dodecafonica (grazie, Arnold!). Alla fine ricompare per lo “stretto” di rito il nostro bravo soggetto auto-referente (mi sono dimenticato di dirvi che questi si basa sul secondo elemento, ma penso che ve ne sarete già accorti da soli), il quale capisce che è proprio l’ora di “darci un taglio, congedandosi dall’ascoltatore con una quanto mai ipocrita pseudo-appoggiatura.

    “Già, e l’accordo di fa diesis maggiore cosa c’entra? Perchè mai siamo giunti qui?” si chiederà l’ennesimo teorico di turno. Domande destinate (purtroppo) a cadere nel dimenticatoio: un breve respiro ed è già giunto il momento, per l’esecutore, di attaccare la terza variazione:

    “Vegliate e vigilate perché non sapete né il giorno né l’ora” (Mt 25,13) è l’espressiva variazione centrale, il momento più intensamente “lirico” e declamatorio dell’intero brano.

    Su due re bassi (che con la tonalità d’impianto non c’entrano un bel niente) il primo elemento tematico si presenta dapprima sottoforma di svolazzante arpeggio, e subito dopo a mo’ di cluster (l’accordo che ci salta fuori non è niente male, ammettetelo): un elemento che da melodico riesce a sublimarsi in armonico non è una cosa che capiti tutti i giorni, anche se con questa intuizione non pretendo di aver scoperto l’America (me ne guardo bene: certi dotti e simpatici colleghi si prenderebbero subito la briga di segnalarmi qualche autore che, ovviamente, mi ha già preceduto...).

    Quel senso di leggera inquietudine che più o meno intensamente corre lungo l’intera variazione (se avete la partitura sottomano vi prego di osservare il numero metronomico: 57, sembra quasi un anno di nascita) vuol essere una trasposizione musicale del passo evangelico citato nel titolo, fonte di grande coinvolgimento personale fin dai primi tempi della mia conversione: gli innumerevoli e differenti passaggi ora distesi, ora nervosi, sembrano descrivere con realismo l’“attesa” di un Qualcuno, il cui ritorno può giustamente rivelarsi per molti come un’autentica e definitiva liberazione.

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    La quarta variazione sembra mantenere, già dallo stesso titolo, tutte le precedenti premesse-promesse: “Il nuovo giorno”, uno scatenamento di energia musicale che, se me lo permettete, oserei definire post-beethoveniano (se non altro per le quartine di sedicesimo, che qui si sprecano!).

    Al basso è affidata la perentoria affermazione ad ottave del primo elemento, mentre la mano destra continua a “macinare” il secondo, trasformato (suo malgrado) in una sorta di esercizio articolatorio.

    Un armonico raggio di luce (tanto per alimentare l’evidente simbolismo ottocentesco) entra dalla finestra di questa variazione, altrimenti condannata all’asfittica e ormai prevedibile contrapposizione semitonale: sono ben dodici inaspettate battute di un “Primo preludio” tratto da un futuristico “Clavicembalo ben temperato” (l’idea ritmica di base è praticamente la stessa di qualche secolo prima, anche se la resa armonica è di ben altra natura).

    A battuta 27 torna di nuovo prepotentemente di scena il basso, a questo punto dilatato ed eseguito ad ottave spezzate, il cui poderoso effetto è ingigantito dagli accordi affidati alla mano destra. Siamo quasi verso la fine, e ciò lo si capisce dalla ricomparsa della situazione sonora iniziale, ma attenzione: tutto incalza, non c’è più tempo per ripetere le stesse cose: “a buon intenditor poche parole”, e giù a tagliare: il 14/16 (n.d.r.: un banale 4/4 privato degli ultimi 2/16) è solo un piccolo assaggio sottrattivo di ciò che spetterà agli esecutori nella variazione conclusiva, per la delizia di tutti i docenti di Teoria e solfeggio.

    Al secondo elemento rimane solo il tempo di sbrigare le ultime incombenze articolatorie sopra una specie di alter-ego eseguito laggiù in fondo, in aggravamento (dite la verità, davvero non sentivate la mancanza di questo artificio?) e poi... segue immediatamente la quinta variazione, preceduta da un grintoso glissato discendente (sui tasti bianchi, certo).

    “Samba”: come in tutti gli ultimi tempi che si rispettano, anche in questo caso il discorso si alleggerisce (!), facendosi nel contempo meno rigoroso: mentre il primo elemento dimostra ancora una notevole verve, esordendo stavolta nella parte superiore, il secondo resta timidamente abbozzato, stile “reminiscenza dei tempi che furono” (ma non preoccupatevi, si “rifarà” alla fine).

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    In questa variazione la matrice jazzistica c’è (e si sente!) a partire dal “modulodell’accompagnamento ritmico e dal fraseggio talvolta insistente, talora spezzato: poche cose, ma giocate bene (e tutte sul filo di un’improvvisazione appena suggerita). Significativa, a proposito, l’indicazione riguardante la mano sinistra che recita così: “ritmo base da variare liberamente, se vuoi“ (càspita, l’Autore ti dà anche del tu!).

    A mio modesto parere ritengo che questa variazione non ci perderebbe, dal punto di vista timbrico, se si provasse ad eseguirla sull’organo Hammond, magari con qualche intervento solista di Moog stile anni ‘70 ma... non divaghiamo troppo!

    A battuta 6 viene il bello, già annunciato in precedenza: le battute cominciano ad essere accorciate (dal sottoscritto) con progressivi e impietosi tagli: dai 22/32 si va ai 13/32, dai 14/32 si passa agli 8/32 e ai 7/32, ritornando poi al 4/4 su una scala in 19/32. (l’effetto, lo sentite?, è davvero stringente!). Per complicarvi ulteriormente la vita l’Autore vi sfida infine ad eseguire delle terminologicamente orrende “undeciminedi biscrome, che in realtà altro non sono che l’esatta e misurata trascrizione di un “trillo non misurato” (!)

    Dopo una ripresa, variata in modo quasi impercettibile, il secondo elemento impegna parallelamente le due mani in una perentoria conclusione verso la zona grave della tastiera, terminando con un improbabile (ma possibile) accordo di re diesis maggiore.

    Ed eccoci finalmente tornati a casa, dopo questo curioso e simpatico giretto che ci ha permesso di rivisitare in così breve tempo tanti e diversi luoghi della nostra infanzia (musicale): impassibili come due sfingi, il primo e il secondo elemento tematico (persino la citazione debussyana) sono ancora lì, nel cosidetto riepilogo, intatti come li avevamo lasciati prima di partire (quasi come se le vicende, di cui pure sono stati protagonisti, non li avessero minimamente sfiorati).

    L’unica, vera novità è il secco do diesis finale al basso, vero e proprio punto d’arrivo di un articolato discorso musicale iniziato appena 5’25” circa prima (non credo che con queste variazioni l’ipotetico conte Hermann Carl von Keyserlingk avrebbe avuto sufficiente tempo a disposizione per addormentarsi!).

Attestato di deposito della presente 'Guida all'ascolto'
presso la Fondazione Archivio Diaristico di Pieve S. Stefano (Arezzo)

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    Penso sia davvero arrivato il momento del commiato (e un po’ mi spiace anche perché, lo confesso, “ci stavo prendendo gusto”)! Scrivendo a soggetto si esita poi sempre a terminare, temendo di tralasciare qualcosa di importante: nel caso dovessi accorgermene non mancherò di rimediare in un’eventuale, prossima “versione” (anche se ho il fondato sospetto che queste dodici pagine vi saranno sufficienti per un bel pezzo:

“5 variazioni sopra 2 elementi tematici”).

Cordialità!

Roberto Rampini - Pilastro (Parma), 15 Giugno 1996

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